
Non solo in occasione della ricorrenza annuale del Dantedì – oggi 25 marzo – ma per tutto il 2021, settimo centenario della morte di Dante, si moltiplicano riviste, pubblicazioni, articoli, interviste, giornate di studi e di convegni, mostre, esposizioni, cicli di incontri e lettura integrale, anche con commento critico, della Divina Commedia. Meritatamente Dante mantiene la centralità nella cultura universale e la Divina Commedia è il secondo libro più tradotto dopo la Bibbia.
Oltre le iniziative di carattere scientifico, sono previsti anche progetti culturali di ampio respiro e dedicati a un pubblico vasto. La promozione di queste attività sarà curata da molti soggetti, fra i quali: l’Accademia della Crusca, Teatri e Musei fiorentini, La Società Dantesca Italiana, la Società Dante Alighieri, Archivi di Stato, Centri culturali e Istituti comunque denominati, Università italiane ed estere. Sono previste anche mostre digitali su materiali, incisioni, libri a stampa e manoscritti relativi al Poeta fiorentino. Si è cercato un coinvolgimento, a volte anche spettacolare, con la messa in opera di molti eventi musicali, teatrali e cinematografici e comunque artistici.
Certamente la situazione attuale scoraggia da iniziative cosiddette in presenza. Ma ormai ci stiamo sempre più abituando a forme alternative: incontri in modalità telematica, in forma remota, attraverso il web, utilizzandolo in maniera anche proficua e soddisfacente.
Saranno evocati e discussi gli episodi più salienti e celebri della Commedia anche per mettere in evidenza le preoccupazioni che hanno palpitato nel cuore e nella mente di Dante, i timori, le speranze, le certezze, i riferimenti alla sua persona (la vita movimentata, l’esilio lungo e doloroso), alla difesa della sua città (battaglia di Campaldino contro i Ghibellini di Arezzo), alla sua presenza in politica come cittadino (anche con un’azione di lotta in una Firenze contrastata da interessi e fazioni) fino a raggiungere l’alto grado della magistratura comunale come Priore, con le conseguenze che conosciamo.
Importanti saranno anche i riferimenti alla sua epoca, che è momento di crisi piuttosto avanzata e di transizione verso l’Umanesimo. In essa l’opera di Dante incide fortemente, la riflette e la riassume in una potente sintesi.
Altrettanto notevole e significativo sarà verificare la pertinenza della parabola, umana e letteraria, di Dante in un contesto, storico e culturale, radicalmente mutato quale è il nostro.
Di sicuro in tutte queste iniziative Dante sarà cantato, celebrato, esaltato, osannato, incensato. E poi e poi pur “restituito” al suo tempo e “imprestato” al nostro bisognerà fare un consuntivo. Ma quando questo fervore di iniziative, per rendere il giusto omaggio al maggiore poeta italiano e mondiale, si attenuerà o finirà, saremo in grado di dare una risposta ad alcuni interrogativi? Per me e per tutti i lettori o ascoltatori della Divina Commedia, Dante chi è stato e chi è veramente? Come dire: quale il significato e il valore della sua vita, della sua opera, della sua poesia per l’uomo di sempre e dappertutto? E in senso ancora più ampio: qual è il ruolo di Dante e la sua incidenza nella cultura di oggi, in particolare nel periodo di crescita, di sviluppo e formazione della personalità dei nostri giovani?
Ho chiesto a Dante stesso di aiutarmi. E chi meglio di lui, nella situazione in cui si è trovato e nella posizione che occupa ormai in alto, nel cielo, può distinguere l’esteriorità, l’apparenza, la chiassosità degli eventi dalla sostanza delle cose? E, per renderlo più disponibile alla collaborazione, ho preso a prestito le parole che lui ha rivolto a Virgilio:
“E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti”. (Inf. c. XX)
(maestro, i tuoi ragionamenti sono così sicuri e conquistano la mia fede in modo tale che i ragionamenti altrui sarebbero per me come carboni spenti e quindi senza efficacia).
Mi ha risposto, bonario e sorridente, usando le parole di Catone che lo accoglie nel Purgatorio: “ ...non c’è mestier lusinghe”. Non occorre che tu mi lusinghi, chiedi e basta e poi non chiamarmi maestro, riserva questo titolo a quelli che io stesso ti ho indicato nella mia opera: Virgilio, senz’altro, e i suoi amici poeti e filosofi incontrati nel grande e nobile castello del Limbo. Maestri di costumi, di pensiero, di arte. E ancor più i grandi santi e dottori in Paradiso che hanno implorato per me la visione di Dio, che è “la somma luce”, “la luce eterna”. Sommi maestri di vita e di fede . Ma che cosa vuoi chiedermi?”
“Queste ricorrenze – i centenari della tua nascita e della morte – hanno senso e rendono ragione effettiva alla tua persona, alla tua opera, alla tua fama?” “Io ho scritto la Commedia e le altre opere perché ne sentivo la necessità, l’urgenza interiore, chiamala pure ispirazione trascendente, e ho svolto solo il compito di fedele e diligente registrazione (Purg. XXIV vv. 52-54) :
“…I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando”.
(Io sono uno che quando il sentimento – l’ispirazione – mi parla dentro, annoto, raccolgo e poi esprimo nel modo in cui ha dettato). Tocca poi a chi legge interiorizzare il messaggio, condividerne il significato pur nelle diverse sensibilità, capacità e culture. Questi eventi hanno perciò senso se al di là dell’esteriorità, del colore e, qualche volta, del chiasso, delle ricorrenze la mia poesia parla ancora agli uomini di tutte le età e di tutte le nazioni e porta un nutrimento alla mente e al cuore”.
“Ti ricordi qualcuna di queste commemorazioni?”
“Esattamente cento anni fa (30 aprile 1921), Benedetto XV celebrava il sesto centenario della mia morte (1321) nella forma solenne dell’enciclica In praeclara summorum (Nella illustre schiera dei grandi personaggi…). (Per inciso ti ricordo che lo stesso Pontefice con parole vere ed amare, aveva definito la Grande Guerra nel 1915 “orrenda carneficina che da un anno disonora l’Europa” e nel 1917 “inutile strage”! Parole confermate, con tanta tristezza e con il loro sacrificio di vita, dai milioni di morti, testimoni-martiri di quella catastrofe, che si sono presentati qui da noi in Paradiso. Quella Guerra è stata veramente un vero Inferno. Ed io che credevo di aver visto e descritto l’odio, la crudeltà, l’efferatezza e il sangue di battaglie e guerre dei miei tempi o di quelli precedenti!).
Questo Papa mi ha lusingato definendo la mia Commedia «poema sacro» con il titolo di “Quinto Evangelo” e scrivendo che «Dante conserva la freschezza di un poeta dell’età nostra».
“Ma anche un suo successore ha tessuto un buon giudizio nei tuoi confronti”.
“Sì, ricordo perfettamente che, nella ricorrenza del settimo centenario della mia nascita (1265), anche Paolo VI con la lettera apostolica Altissimi cantus (7 dicembre 1965), pubblicata alla chiusura del Concilio Vaticano II, evidenziava l’attenzione e il profondo interesse della Chiesa per la mia figura e donava a tutti i partecipanti una pregiata edizione della mia Commedia. Già l’incipit è elogiativo “Quest’anno ricorre un centenario del signore dell’altissimo canto (altissimi cantus), di Dante Alighieri” ed evidenzia la mia centralità assoluta, in tutta la poesia italiana, definendomi «l’astro più fulgido» della nostra letteratura e «padre della lingua italiana». E ancora “Il Poema di Dante è universale: nella sua immensa larghezza, abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta dalla Rivelazione divina e quella attinta dal lume della ragione, i dati dell’esperienza personale e le memorie della storia”… “Dante Alighieri non solo approva tutti i valori umani – intellettuali, morali, affettivi, culturali, civili – ma addirittura li esalta”. E conclude questa lettera con l’invito-appello: «Onorate l’altissimo poeta!»
“E l’attuale pontefice?”
“Anche papa Francesco mi commemora oggi Dantedì e in questo centenario con la lettera apostolica Candor Lucis æternæ (Splendore della luce eterna) nella quale riflette sulla figura e sull’opera di Dante. Ecco qualche citazione: “Profeta di speranza e testimone della sete di infinito insita nel cuore dell’uomo”. “L’Opera di Dante parte integrante della nostra cultura”. E ancora: “Dante trasforma l’esilio in un paradigma della condizione umana”…“riflettendo profondamente sulla sua personale situazione di esilio, di incertezza radicale, di fragilità, di mobilità continua, la trasforma, sublimandola, in un paradigma della condizione umana, la quale si presenta come un cammino, interiore prima che esteriore, che mai si arresta finché non giunge alla meta”… “Il Sommo Poeta, pur vivendo vicende drammatiche, tristi e angoscianti, non si rassegna mai, non soccombe, non accetta di sopprimere l’anelito di pienezza e di felicità che è nel suo cuore, né tanto meno si rassegna a cedere all’ingiustizia, all’ipocrisia, all’arroganza del potere, all’egoismo che rende il nostro mondo ‘l’aiuola che ci fa tanto feroci’”.
Ho citato questi tre pontefici perché così diversi da quelli dei miei tempi: Niccolò III, Bonifacio VIII e Clemente V (e in altra occasione ho aggiunto Giovanni XXII). Sai anche che li ho messi nella bolgia dei simoniaci, capovolti e con i piedi accesi o, se ancora vivi quando ho fatto quel viaggio, si profetizza che vi cascheranno di peso appena morti (Inf. c. XIX). Per “impinguare” i loro parenti, la loro “avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi” (per ingrassare i loro parenti, la loro avarizia corrompe il mondo, calpestando i buoni ed esaltando i malvagi). Cacciaguida, mio trisavolo, in Paradiso (c. XVII), non esiterà a definire la curia pontificia il luogo “là dove Cristo tutto dì si merca” (dove, ogni giorno, si fa mercato di Cristo). Contro tutti costoro, cupidi, lussuriosi, avari, usurai, corrotti e corruttori, trafficanti di privilegi e di benefici materiali e spirituali, il Primo Papa – S. Pietro – lancia la sua fierissima invettiva (Par. c. XXVII), definendoli falsi pastori: “pastor senza legge”, anzi “lupi rapaci” che hanno trasformato la sua chiesa e quella sede consacrata dal suo martirio a Roma, come una turpe, crudele e sanguinosa “cloaca”!… Ma basta parlare di papi antichi o moderni”.
“E allora parliamo della tua vita in particolare del tuo esilio, al quale papa Francesco ha già fatto il suo riferimento. E’ stato veramente un capitolo centrale di essa?”
“Ora ne posso parlare serenamente. Soprattutto del significato che ha avuto nella mia vita e nella mia opera. E’ stata la più alta scuola morale e la più forte spinta alla concezione della Commedia. Ma, negli anni in cui l’ho vissuto, è stata una pagina tristissima della mia esistenza terrena, un’esperienza sconvolgente”.
“Prova a riassumerne i termini”.
“Nel gennaio del 1302, di ritorno da un’ambasceria a Roma, presso Bonifacio VIII, nei pressi di Siena seppi del colpo di stato in Firenze che dava la città in mano ai Neri. Inizia il lungo (20 anni!) e doloroso esilio: senza patria e senza partito, oppresso dalla povertà, in una tragica ed eroica solitudine. Morirò a Ravenna nella notte fra il 14 e il 15 settembre del 1321, a 56 anni.
Nella mia Commedia diversi personaggi mi predicono questo triste evento. Nell’Inferno Ciacco parla della vittoria dei Guelfi Neri che prendono il sopravvento (con l’aiuto di Bonifacio VIII che pensa di trarre profitto per la sua politica teocratica, inviando a Firenze come paciere Carlo di Valois). Inizia la vendetta contro i Bianchi con saccheggi, incendi, persecuzioni e processi sommari. Nell’occasione mi hanno condannato (sentenza del 27 gennaio 1302) in contumacia, essendo io fuori Firenze, ad una pesante ammenda, all’esilio per due anni e all’esclusione perpetua dai pubblici uffici. Capi di imputazione: baratteria (profitti illeciti da una carica pubblica), azione ostile al papa e al suo paciere, turbamento della pace della città. Ovviamente non mi sono presentato per discolparmi – discolparmi da che cosa? Con una seconda sentenza (10 marzo 1302) mi hanno condannato alla confisca di tutti i miei beni, alla distruzione delle mie case e ad essere bruciato vivo (igne comburatur sic quod moriatur – bruciato vivo così che muoia) se mai fossi caduto nelle mani del Comune.
E poi, sempre nell’Inferno, la profezia di Farinata degli Uberti. E ancora le parole accorate e sdegnose del mio maestro ser Brunetto Latini (anch’egli ha conosciuto l’esilio): la solitudine e l’amarezza dell’esilio ci saranno ma dovrai sempre affermare l’orgoglio, la dignità e la coscienza.
Anche nel Purgatorio le profezie dell’esilio continuano. Nell’incontro con Corrado Malaspina (Purg. c. VIII), gli ricordo di aver udito lodare la liberalità, la potenza e la giustizia dei marchesi Malaspina nella Lunigiana. Corrado mi annuncia che io stesso sperimenterò “questa cortese oppinione” entro sette anni. Così è stato nel 1306 quando ho goduto della loro ospitalità.
Nel Paradiso, l’imperatore Giustiniano, nel cielo di Mercurio, dopo l’ampia ricostruzione del volo – guidato da Dio – dell’Aquila romana, coincidente con la storia dell’Impero, esalta la figura di Romeo di Villanova. Romeo, ministro del Conte di Provenza, ha esercitato il suo alto ufficio con abilità, scrupolo e probità. Ma, per invidia dei cortigiani, verrà malamente ripagato e cacciato via. Sarà costretto a prender il bastone della vecchiaia e di paese in paese, a domandare un tetto e a mendicare il pane a tozzo a tozzo (frusto a frusto). Con ogni evidenza si tratta di un chiaro riferimento anche al mio esilio:
“indi partissi povero e vetusto;
e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo loderebbe” (Par. c. VI).
Sempre nel Paradiso il mio trisavolo Cacciaguida, crociato-martire in Terrasanta mi profetizza:
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale” (Par. c. XVII).
E mentre Dante si chiude in un comprensibile silenzio, io lo lascio alla sua rinnovata emozione e fra me e me penso: “Parole semplici e affettuose quelle di Cacciaguida che mescolano dolore e amore e con le quali il trisavolo descrive cose orrende che colpiscono il cuore del suo discendente: perderai le cose care e troverai le cose più sgradite: la calunnia, la miseria, l’angoscia, l’umiliazione di mendicare, salendo e scendendo le scale nelle case degli altri, il sapore amaro del pane altrui. E non sempre sarà possibile vincere la diffidenza di alcuni signori: per alcuni sembrava essere il solito parassita che cerca ospitalità, per altri peggio ancora: costui (Dante) è stato cacciato da Firenze e ci sarà stato pure un motivo e allora meglio non averlo fra i piedi!.. Per sua fortuna però ma anche e soprattutto per la sua cultura, da altri Signori sarà apprezzato come uomo di corte e impegnato con onore in ambascerie e incarichi delicati. Anche in questi ambienti Dante è stato consigliere non servile e pur sempre giudice non arrendevole dei potenti. Poi mi rivolgo ancora a lui:
“Ma, se ben ricordo, tu stesso nel Convivio (III, 4-5) parli del tuo esilio con combattività ma anche con amarezza sconsolata della vita spezzata e pur sempre nella speranza di tornare nel dolce seno della tua città – “Fiorenza … per “riposare l’animo stancato” e chiudere in essa i tuoi occhi e il tuo cuore. Ecco le tue parole:
Cacciato da Firenze “peregrino, quasi mendicando, sono andato, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende (in ogni parte d’Italia), mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno (nave) sanza vela e sanza governo (timone), portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che la dolorosa povertade vapora (emette)”.
“Ci sono state delle circostanze che ti hanno aperta la speranza di tornare in Firenze?”
“In due occasioni. Nel 1310 con la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII si riaccesero la speranza di un accordo e del giusto equilibrio fra Impero e Chiesa e quindi la possibilità di porre fine alle lotte. Per ciò in quell’occasione scrissi tre Epistole: una ai principi, ai reggitori dei Comuni e ai popoli d’Italia, una seconda agli “scelleratissimi fiorentini” e la terza direttamente all’Imperatore. Tutti avrebbero dovuto accoglier l’Imperatore come inviato da Dio per sanare le discordie locali, reprimere l’orgoglio dei malvagi e ristabilire la giustizia e l’ordine in Italia, che da “il giardino de lo impero”, “donna di province” (domina provinciarum = signora dei popoli) è diventata “serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta”. Purtroppo l’imperatore morì nel 1313. E poi nel 1315 quando ci fu un’amnistia da parte del Comune di Firenze, che però poneva, per il rientro degli esuli, atteggiamenti e clausole umilianti come l’ammissione delle solite colpe. Naturalmente rifiutai. Tutti sapevano che avevo sempre agito per il bene, la pace e la prosperità della mia città”.
“Ho letto, su questo argomento, con grande attenzione la tua sdegnosa Epistola “All’amico fiorentino” che ti aveva messo al corrente di quell’amnistia, in cui protesti la tua innocenza, rifiuti ogni umiliazione e riaffermi la tua dignità di uomo e di filosofo: <<Non è questa la via di ritornare in patria. Ma se un’altra… se ne troverà, la quale non deroghi alla fama e all’onore di Dante, io la percorrerò e a passi non lenti>>. Se ciò sarà impossibile, pazienza, resterò fuori Firenze. E concludi amaramente…<<neppure il pane mi mancherà>>. E già, quel pane che sa di sale! E, in più, ad accrescere il disagio e l’amarezza dell’esilio, sapevi che il Comune di Firenze aveva ribadito la condanna a morte per te e i tuoi figli.
“In breve: cosa hai avvertito e provato durante l’esilio?” “Il peso, la fatica, la stanchezza, la solitudine, le angustie e l’incertezza di una vita raminga; La diffidenza e i pregiudizi nei miei confronti da parte di molti; La povertà sempre incombente; L’umiliazione del chiedere e del servire; La nostalgia pungente della patria lontana; L’angosciosa preoccupazione per la sorte dei figli e della moglie”.
“L’esilio può considerarsi anche la più alta scuola morale per te? Che cosa ti ha consentito?” “L’approfondimento della conoscenza degli uomini, delle loro virtù e delle loro bassezze; La capacità di sollevarmi dai casi personali verso un’ampia riflessione sulla storia; Il distacco del mio animo dalle piccole passioni politiche, dagli odi di parti, dalle ingiustizie sofferte, dai desideri di vendetta ampliando così l’orizzonte politico e morale con la conseguente maturazione del pensiero e sempre con quell’anelito, anche ostinato, a voler credere nell’universalità del bene, della pace, dell’ordine, della giustizia. Il senso profondo di una Provvidenza che guida la storia e stabilisce, per il bene della umanità, le due supreme guide e autorità, ciascuna in piena autonomia dall’altra: la chiesa e l’impero”.
“In quell’esilio, tanto inatteso e immeritato, con cui sei stato colpito duramente per la restante parte della tua esistenza, ti sei riservato anche un cantuccio come rifugio in un mondo ideale dal quale guardi gli uomini di tutti i tempi e di tutte le nazioni, li ammonisci e li condanni. Queste esperienze di vita reale ed affettiva ma anche di pensiero, non rappresentano forse la più forte spinta alla concezione e alla realizzazione della tua Commedia?
“Ti rispondo con le parole del prof. Sapegno, affermato storico e critico letterario, che da sempre e con intelligenza ha colto il significato e lo spessore della mia opera: <<La Commedia nasce da questo incontro di un’esperienza angosciosa e di una potente convinzione, da questa drammatica riconquista di una fede, che si riconosce e si esalta nell’urto quotidiano con la realtà che la contrasta e sembra rinnegarla, ed essa esprime insieme e alternativamente quell’angoscia e quella fede, la collera gigantesca e l’inesausto anelito del poeta>>.
“Se ti può far piacere anch’io ti voglio citare due altri storici, critici e tuoi fedeli e grandi ammiratori che così efficacemente hanno riassunto il tuo esilio: <<Dante esule è cittadino del mondo: l’esilio gli ha tolto ogni cosa cara, ma ha dato alla sua mente una maggiore ampiezza e libertà di movimenti, ha messo nelle sue rampogne contro i concittadini, insieme con una nota di dolore personale, quella di una morale più larga imparata quando, nei pellegrinaggi del senza patria, ha veduto che Firenze è solo una particella del mondo>> (Momigliano).
<<Dante senza patria e senza partito, oppresso dalla povertà, solo, ma invitto, cerca in sé la vittoria, crede più tenacemente alla salvezza, al bene, alla provvidenza, pone sempre più lontana ed eccelsa la sua meta, quanto più sembra abbassarsi e sconfitto dalla realtà>> (Apollonio).
“Grazie ma ora basta. Me ne vado. Beatrice mi aspetta in cielo”.
“Non prima di avermi promesso di parlare, in un prossimo incontro, di altri temi, quali: La Divina Commedia – La fortuna di Dante nei secoli… Ed io ti garantisco che la tua grande e ineguagliabile Opera, rimarrà sempre sulla mia scrivania e mai in uno scaffale, per essere letta e riletta ogni giorno. Te lo ripeto: “Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore”. E giacché torni su, ringrazia “Qualcuno” per gli anticorpi suggeriti alla ricerca, aggiungi però che i vaccini da soli non bastano a risolvere i tanti problemi connessi a questa emergenza. So che hai seguito dall’alto il corso che svolgiamo in un gruppo bene affiatato e molto interessato alla lettura e commento della tua Commedia. E sai anche che a fatica siamo usciti dall’Inferno “a riveder le stelle” e, appena entrati nell’antipurgatorio, a causa di questa epidemia, siamo rimasti lì fermi da più di un anno. Ci aiuterai a riprendere il cammino e, purificati nelle sette cornici del Purgatorio, ad innalzarci al Paradiso, a “l’amor che move il sole e le altre stelle”?
Dette queste parole mi sono svegliato. Già, perché solo nel sonno posso incontrare Dante. Veramente ho provato a prendere un numerino per incontrarlo da sveglio. Ma all’Accademia della Crusca e alle Società dedicate a Dante Alighieri mi hanno risposto che il mio turno potrebbe essere nel 2065 (ottavo centenario della nascita di Dante). Ma in quella data spero proprio di potergli fare compagnia in Paradiso, sempre sperando che, al momento del commiato da questa terra, da questa “aiuola che ci fa tanto feroci”, possa mettere dentro lo zainetto, come lasciapassare per entrare in Paradiso, la Divina Commedia e un gruzzolo di meriti personali. Per ora, per incontrarlo, dovrò ricorrere ad altre scorciatoie. Intanto gli sono grato per l’incontro fatto.
Prof. Antonio Moretti