CULTURA:
Gli antagonismi campanilistici tra paesi – sia che derivassero da divisioni feudali, da lotte politiche o di classe o da rivalità commerciali – non si sono manifestati, nel tempo, soltanto attraverso episodi di sangue o di violenza. Più spesso, anzi, essi si limitavano a pesanti motteggi ed epiteti scambiati tra gli abitanti delle diverse contrade. Maldicenze, invettive, insulti che hanno sfidato addirittura i secoli: ancor oggi, nonostante siano caduti gli originari motivi di dissidio, resistono quasi ovunque come semplici modi di dire, motti proverbiali o aneddoti scherzosi.
Già i greci e romani avevano creato salaci soprannomi per le genti con le quali erano in vario modo venuti a contatto; nel medioevo, con il fiorire delle realtà comunali, questi motteggi trovarono vasta diffusione, tanto da essere poi fissati nei libri di facezie dei secoli XV-XVII ed in particolare nei “tipi” regionali della Commedia dell’Arte.
«Blasone popolare» è denominazione che in Italia si deve al folcrorista Giuseppe Pitrè il quale, nel 1891, aveva pubblicato un saggio intitolato Blasone popolare in Sicilia; l’espressione nasce a metà del XIX secolo in Francia (blason populaire). Date le loro caratteristiche, questi motti furono anche detti «dileggi e scherni», «maldicenze paesane», «epiteti o soprannomi popolari».
Il tema è di interesse linguistico ma anche demo-antropologico, tuttavia la bibliografia è rimasta assai scarsa. Per quanto riguarda il Lazio meridionale – e la Ciociaria in particolare – non sono state compiute ricerche sistematiche sull’argomento. Pochi frammentari dati ci sono forniti da alcune monografie storiche locali e dai dizionari dialettali.
Come in tutto il resto della penisola, anche in questa area il «blasone» si presenta sotto forma di sentenze proverbiali, filastrocche, soprannomi, canti e aneddoti. Esso prende di mira tutto ciò che può rendere «diverso» il paese rivale: il clima, la particolare posizione geografica, la caratteristica cadenza dialettale, l’abbigliamento e perfino le abitudini alimentari. Più di ogni altra cosa, però, sono fatti oggetto di scherno il carattere degli abitanti , il loro comportamento, le loro capacità intellettive (ovviamente sempre molto ridotte, se non addirittura assenti). Anche nella struttura e nei contenuti, quindi, i «blasoni» ciociari non si discostano da quelli delle altre provincie italiane. In molti casi, anzi, essi sono in tutto simili, mutando soltanto il nome del paese al quale si riferiscono.
Si dice, ad esempio, della rocca di Fumone: «Femone curnute, da pe’ tutt’ è uedute» mentre nel Viterbese, riguardo a Montefiascone, è nota l’espressione strana: «Montefiascone cornuto ddo’ vai sì vveduto». Il modo di dire è stato generalmente spiegato, per queste località, con la posizione elevata e la particolare conformazione del borgo; sembra non da escludere comunque l’intenzione di colpire anche gli abitanti, attraverso l’aggettivo che qualifica i due centri.
Di uno stesso «blasone», poi, possono servirsi vicendevolmente due località, come in questo caso di Monte San Giovanni Campano e di Boville Ernica: «M’ntician: scortca cane, accìt p’tucch i ssona campan’ !» e, di rimando, senza troppa fantasia, «Baucane, scòrteca cane, accide petùcchie i sòna campane».
A proposito di intercambiabilità dei toponimi in certi «blasoni», tipico è il proverbio a sfondo climatico che, senza variazioni se non dialettali, è noto dal Veneto alle Marche, dalla Lombardia all’Abruzzo, alla Sicilia. Per la Ciociaria è relativo ai centri di Alvito e di Atina:
«Chi uò patì le pene deglie ‘nfierne Aluite de state i Atina ‘mmièrne».
In diverse località del Frusinate, per vantare indirettamente la bontà del proprio clima anche in periodi di freddo intenso, si additano, come da evitare, alcuni paesi meno fortunati: «Chi vo’ sentì lu friddo de jnnàro vàra a Sant’Antuono de Ceprano».
Accanto alla festa cepranese del santo abate (17 gennaio), si collocano con espressioni analoghe, quelle di Alatri e Giuliano di Roma, rispettivamente in onore di S. Sisto (11 gennaio) e di S. Biagio (3 febbraio).
In altri casi, accanto alle pessime condizioni atmosferiche, è anche il clima umano, l’ambiente, a sconsigliare la visita di Veroli: «Uièrglie, paèse de schenfuorte, o chiòve o tira viente o sòna a muorte» o di Acuto: «Acute, Acute, nen ce fusse màie menute, mo che te so uiste, m’arracchemanne a Criste!».
L’avarizia, caratteristica, per necessità (almeno un tempo), delle classi subalterne, è tra i vizi più frequentemente evidenziati nei motteggi popolari. Di ampia diffusione è l’espressione: «Anagni, si nun porti nun magni» alla quale gli interessati rispondevano con un «Anagni, se retùrne ce remànni», una sorta di blasone autoelogiativo che ricorda il frusinate: «Frusenone tè la porta pènta triste chi c’escie, biàte chi c’entra», il castrese: «Chi nen campa a Castr’ ia Fùnne nen campa a niciuna parte ‘gli munne» o anche l’arpinate: «Chi ad Arpino non sa campà, mieglie che a mare se va a jettà».
Alla grettezza gli abitanti di Ripi uniscono una spiccata tendenza al pettegolezzo: «Gl’ r’ pan’ so’ largh d’uoca i stritt’ d’ man’». Un’ espressione, questa, che si trova quasi senza varianti nella tradizione orale campana, toscana e veneta.
L’avarizia porta, secondo un altro «blasone», gli alvitani a cibarsi di alimenti scadenti e di basso prezzo: «Alvitan’ magnamiglie».
Per alludere ai facili costumi delle donne di Patrica (qui è solo un esempio: nessun paese è esente da questa fama), i paesi limitrofi fanno riferimento alla caratteristica decisione negli affari dei suoi abitanti. Le prestazioni sessuali di quelle donne devono essere obbligatoriamente pagate in anticipo: «Patrecàna, cucca ‘n tèra i quatrìne ‘n màne». Non poche località sono prese di mira per la trasandatezza nel vestire, oltre che per una cronica mancanza di pulizia. A questo proposito è nota una non lusinghiera espressione rivolta dagli abitanti di San Giovanni Incarico a quelli di Pico: «P’ caluoti’, sett’ grad’ sott’ lu puorch’». Se il maiale diviene qui il simbolo del livello più basso del mondo animale, il picano è considerato addirittura sette grati inferiore ad un suino!
Degno compare è il monticiano, se si deve prestar fede ad un detto di Boville: «Cl’ M’ ntacian’ pisc’ n alla conga, c’ s’ laun’ l’man’, i c’ iammass’ n l’ pan’».
La qualità del vino prodotto in un paese entra spesso nel «blasone» popolare. In Val di Comino, per tacciare qualcuno di inettitudine, si è soliti ricorre al paragone: «Si’ fort’ comm’ a l’acit d’ Caslvier’», alludendo ad un paese ritenuto privo di vocazione vinicola e quindi produttore di un aceto scadente, «annacquato».
Gli abitanti di Santopadre, invece, godono ottima fama di vignaioli; è però consigliabile tenersene alla larga per il carattere non facile: «Santopadre onnipotente, bbonu vinu i mala ggente». I ferentinesi, e con essi il loro «nettare», sono condannati senza alcuna possibilità di appello: «Frintin’, trista gent’ i cattiv’ vin».
Taluni difetti fisici sono ritenuti tipici di certi paesi, come il gozzo nelle donne di Arpino: «Le bozzolose so’ tutte d’Arpino».
Addirittura i santi patroni sono talvolta chiamati in causa nella rivalità tra due paesi. E’ noto, ad esempio, il modo di dire: «Tu ‘n r’ spiett’ P’ trucc’ mia,iu n’ r’ spett’ T’ mmas’ tia» che allude a S. Pietro Ispano, protettore di Boville e a S. Tommaso d’Aquino di Monte San Giovanni Campano.
Anche se apparentemente pochi, non mancano «blasoni» piuttosto cruenti che rivelano antichi e profondi dissidi. Ne è testimonianza questa invettiva rivolta contro gli abitanti di Fiuggi, un tempo Anticoli di Campagna: «Anticulani, Anticulani, fàgli a ppezzi i dàgli agli cani».
Di certo interesse, infine, sono le espressioni popolari relative alle attività un tempo caratteristiche delle varie località. Sebbene siano nate, forse, per mostrare l’incapacità degli abitanti di un paese di saper svolgere altri mestieri, esse hanno tuttavia fornito utili indicazioni ai venditori ambulanti che per secoli hanno percorso in lungo e in largo le terre di Ciociaria. Parte di una filastrocca raccolta a Patrica elenca alcune di queste forme di artigianato: la fabbricazione di stoviglie, di sedie e di fusi: «Cucciari d’Alatri; Sediari du Veroli; Ortucchiari du Guarcino».
Immagine di copertina: “L’improvisateur dans la campagne de Rome”, Edouard Brandon (1831-1897).
Riferimenti: Guglielmo Lützenkirchen, Note sul blasone popolare ciociaro, in Ricerche sulla cultura popolare in Ciociaria, a cura Atti del convegno Patrica, 30 ottobre 1994, Anagni 1995.